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giovedì 1 dicembre 2016
Anno VIII n. 43
La prima lettera pastorale del Vescovo
Corrado Sanguineti
Esce oggi il nuovo e
attesissimo libro di San Siro di Mino Milani. Grazie alla gentilezza
dell’autore abbiamo potuto leggere in anteprima Il Castello e con
piacere lo presentiamo. Non volendo privare i lettori di scoprire in che modo
il commissario Ferrari riesce a ritrovare armi rubate nel vicino Regno di
Sardegna mentre è sulle tracce di un pericoloso evaso, anziché accennare alla
trama, facciamo conoscere i vari protagonisti che dividono la scena con
l’indiscusso mattatore Melchiorre Ferrari, il fidato Steiner (“ragazzo sei la
mia consolazione”), Ziller, Rovati e Rovida. Questa scelta non è solo un
semplice escamotage, ma si presta bene perché ne Il Castello forse in
più che in altri libri di San Siro, lo scrittore ritaglia un ruolo non solo di
comparsa a diversi personaggi. Il primo a entrare in scena è Ireneo Lanati,
noto come Balnéger che “aveva cominciato a mettersi nei pasticci da
ragazzino, passando velocemente dai furtarelli ai furti, per fatalmente
giungere alla rapina, senza con ciò trascurare truffe, frodi, imbrogli,
pestaggi a pagamento e via dicendo”; in procinto di essere giustiziato riesce a
scappare “evadendo alla maniera classica, segando cioè le sbarre della finestra
con una lima”. Una parte importante è svolta da Cesare Lombroso, qui studente
all’Università e non ancora famoso psichiatra e antropologo criminale. Milani
gli affida il compito di far conoscere “in nuce” le sue teorie (“il crimine è
una malattia con cui si nasce: lo si porta scritto in viso”) a uno sbigottito
Ferrari. Inizialmente perplesso dalle innovative idee del brillante assistente
di Pratner e uscito “da quella sorta di strano incantesimo”, il commissario ne
intuisce la validità e, a modo suo, le utilizza. Mariani Pietro detto Marianètu
è invece il contadino che a sua insaputa e per un’ossessione, “qualcuno grida
di notte e non lo lascia dormire”, offre a Ferrari il filo per risolvere i
misteri (e i guai) che incontrerà visitando il Castello “e tutto quanto di
triste sta attorno” appena fuori Pavia dove si scorge che “il Ticino laggiù in
fondo appariva d’un cilestrino vago e insignificante”. Un ruolo non secondario
lo svolge Angelo Bassini, noto “mazziniano, garibaldino, reduce di guerra” e
amico di Ferrari; le sue preziose informazioni aiutano il commissario a fare
chiarezza sul contrabbando di armi che alimenta le fobie mazziniane del barone
Ziller e preoccupa il governo di Torino che “aveva mandato in missione il
Commissario superiore Molinatti” a Pavia. La parte di prima donna è di
Teresina, mascolina e affascinate nipote del barcaiolo Balestra, “ragazza di
poco più di vent’anni, bella anzi prorompente, dai capelli color del grano
maturo, dagli occhi neri” che affascina non solo il buon Ferrari ma anche il
compassato Lombroso e i questurini messi sulle tracce di “quella sorta di inno
alla giovinezza”. Enrico Trespi è un misterioso possidente bresciano esperto in
armi; la sua spregiudicatezza e audacia darà molto filo da torcere al
commissario Ferrari costringendolo persino a trascorrere una notte
all’addiaccio, mentre il suo fascino colpirà il cuore di Teresina. Il filo
rosso che lega indizi, intuizioni e personaggi (se ne incontreranno altri in
veste di preti, secondini, contadini, vetturini, fabbri e barcaioli) è
magistralmente intrecciato e narrato da Mino Milani. Attraverso i monologhi
notturni del commissario corroborati dall’immancabile bicchiere di cognac, lo
scrittore compone l’intricato puzzle con il quale Ferrari porta a termine le
sue faticose e movimentate indagini al Castello, riuscendo altresì, e il
lettore scoprirà come, ad anteporre le ragioni del cuore a quelle di Stato. Il
libro è arricchito da pregevoli descrizioni che rappresentano il vero e proprio
valore aggiunto del romanzo. Ne citiamo un frammento che, con un tocco di
poesia, coglie e descrive bene la filosofia, lo stile e il modo di essere del
commissario Ferrari: “Seguirono lunghi temporali agostani, e gli usignoli smisero
le loro melodie più presto del solito, né le ripresero se non quando il cielo
tornò azzurro e limpido, ma di quel colore magico e languido che preludeva
all’autunno. Quella era la stagione prediletta da Ferrari. Non s’era mai curato
di pensarci su bene, ma in fondo avrebbe voluto che l’autunno durasse tutto
l’anno. Quando poteva, se ne andava zoppicando lentamente per le stradine
silenti e in ombra per buona parte del giorno … non c’era bisogno di correre a
cercare le cose necessarie: se dovevano venire, sarebbero venute. Di ciò era
certo. Vero o no, che malgrado fosse zoppo, lui arrivava dappertutto?”.
Mino Milani
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